venerdì 7 dicembre 2012


Per non dimenticare da dove veniamo




I bengàla (Setèmbri dé ’44)
di Rino Salvi

Nel settembre del 44, lungo tutta la valle del fiume Marecchia fino a Rimini, è passato il fronte. Dopo aspri, sanguinosi, accaniti  combattimenti le truppe alleate costringevano i soldati tedeschi a ritirarsi al di là di Savignano sul Rubicone.

E' un giovedì pieno di pioggia oggi, il grigio ha portato via i colori alla collina di Poggio Berni; Torriana, Verucchio e San Marino sono nascosti dietro le nuvole basse e piene di pioggia; laggiù verso il mare, proprio nell’angolo, è tutto nero e non promette nulla di buono. È scesa qualche goccia anche prima, ma non ha fatto niente, ha lasciato solamente della gran umidità che ti entra nelle ossa e nel cervello. Non si decide a fare una bella acqua e a liberare il cielo, sembra che aspetti qualcosa.
Verso sera si sente il ricognitore ronzare, va, viene, si vede poi si nasconde, pare un moscone al vetro della finestra. Ecco adesso non c’è più, è andato via. C’è un silenzio! gli uccelli trattengono il respiro.
« Questa notte vengono» dice il mio babbo.
Mangiamo in fretta poi, verso sera, usciamo  per andare a dormire nel nostro rifugio. Un buco scavato nella scarpata sotto la stradina che porta alla stazione. In tre tutti ammucchiati sopra una coperta e due cuscini. Il mio babbo chiude la bocca del rifugio con due sacchi pieni di sabbia e diventa subito notte.
Parlano poco i miei stasera, quasi niente e poi parlano sottovoce e, in quel sussurro, mi addormento.
Mi sveglia di colpo il rombo rauco dei bombardieri e la luce bianca dei bengala che brilla e scruta dappertutto, me la sento addosso che mi fissa, poi lentamente si spegne.
 Sento allora il fischio delle bombe e lo scoppio secco che mi fa chiudere gli occhi e mi viene la pelle d’oca, mi viene voglia di piangere e mi butto tra le braccia di mia madre che mi stringe silenziosa. Poi il rumore degli aerei rotola via lontano assieme alla morte e alla paura, il fiato caldo delle bombe smette di latrare, ritorna il buio avvolto in un silenzio che fa rinascere.
«Stasera han finito di lavorare, dai Rino che andiamo a dormire nel nostro letto!» mi dice mio babbo.
Mi giro di fianco, poi mi metto a pancia sotto, mi giro ancora verso il muro, ma non dormo, gli occhi si riempiono della luce dei bengala, le orecchie rintronano del rombo degli aerei, ho la bocca secca, ho bisogno di bere, mi alzo, vado in cucina, tiro su dal secchio mezzo mestolo di acqua e me la bevo piano, mi calmo, ritorno a letto.
«Dormi povero maccherone che è già passato tutto» mi dice piano la mia mamma con la mano leggera sopra i capelli e, cullato dal russare del mio babbo, quasi senza accorgermene, passo di là.
Ha girato anche questo venerdì il ricognitore, insistente, come se avesse un pensiero fisso, su e giù sul colle del Poggio e poi a Trebbio, a Torriana, a San Giovanni e ancora sopra il Poggio a cercare i nidi delle mitragliatrici nascosti dentro la bosca dei Sapigna, a cercare i cannoni che sparano dai sabbioni di Trebbio e dal cimitero di San Giovanni, si abbassa quasi rasente a terra poi si alza all’improvviso per evitare le pallottole rabbiose dei soldati tedeschi.
«Ci tocca andare nel rifugio anche stasera, in quello grande però, con tutti gli altri, è meglio» dice il mio babbo.
Arriviamo che è gia buio. Il rifugio grande è una galleria di mattoni stretta e lunga che attraversa la massicciata della ferrovia da un capo all’altro. A terra una pozzanghera con due dita d’acqua torbida, ristagna sulla terra battuta. È umido e si scivola. Alcune assi inchiodate chiudono le due bocche.
Piena zeppa di gente. I più stanno zitti, chiusi nei propri pensieri, qualcuno chiacchiera freneticamente come per nascondere la paura, le donne stanno attaccate ai propri figli, non ho mai visto i miei compagni così buoni e zitti, mi sembra siano diventati tutti piccolini. Le nove, le dieci, mezzanotte, le ultime parole si spengono, qualcuno tenta di dormire, gli altri stanno zitti e aspettano.
Verso l’una scoppia il finimondo, è come essere dentro ad un temporale, il cielo è acceso da lampi di luce bianca e violenta che balena all’improvviso e rapida si spegne, la terra trema sotto i piedi, gli scoppi rintronano vicini facendoti saltare dalla paura. In mezzo a quella tempesta di bombe, di fischi laceranti, di boati che non finisce mai, sento le urla dei bambini, vedo gente bestemmiare, pregare, piangere. Dopo i bombardieri cominciano i cannoni degli inglesi che sparano, dal di là dal fiume Marecchia, contro la collina del Poggio da dove rispondono i tedeschi, noi, in mezzo a quell’inferno, non possiamo far altro che aspettare e sperare che finisca, ma non smette tanto presto, solo verso le quattro il mostro stanco di boati, di urla, di fuoco, di morte, lentamente si addormenta e noi con lui chiudiamo gli occhi per non vedere, per non sentire più nulla.
Poi, nella calma del mattino dopo, nel ritornare a casa, vediamo quel cratere sulla stradina, proprio dove c’era il nostro piccolo rifugio.
«Os-cia»’d chéul!» (che fortuna!) borbotta il mio babbo tra i denti e si mette a fischiettare.

martedì 16 ottobre 2012

e' Micòt




Non c’è  la scuola questo giovedì mattina perchè sono cominciate le vacanze di Pasqua e io sono libero di godermi la mia mamma che fa la ciambella.
«Non starmi sempre tra i piedi!» mi dice intanto che tira giù il tagliere. Io faccio un passettino indietro, giusto per accontentarla, poi le ritorno sotto per vedere meglio. Setaccia la farina, poi fa il mucchietto col buco nel mezzo: un po’ di strutto, tre o quattro uova, lo zucchero, la dose, un pochino di latte e comincia a mischiare, ad ammucchiare, a impastare. Fa i filoni, li stende nel padellone, sbatte un tuorlo d’uovo e con un pennellino glielo stende sopra. Dopo, col coltello, raschia ben bene il tagliere e con quel po’ di pasta che ha rimediato fa e’ micòt, un filoncino piccolo, piccolo, ma...  proprio piccolo!
Col padellone sulla testa la Giordana va, tre case più in giù, al forno di Bas-cén e io dietro attento che non perda e’ micòt per la strada.
C’è un via vai di donne nel forno che non stanno ferme un minuto, si danno voce, volteggiano, chiacchierano, si muovono leggere, pare che ballino tra il nero dei padelloni e il giallo delle ciambelle ancora crude. In fondo a quella confusione sta Bas-cén, con la canottiera bianca ed il berretto in testa, che dà l’ultima pulita al forno già caldo per mettere a cuocere i primi filoni. Intanto sua moglie si muove, in mezzo a tutta quella gente, come un’anatra che ha perso i suoi anatrini, Elvira di qua, Elvira di là, è dappertutto e non c’è da nessuna parte.  
«Rino va al forno a vedere se la ciambella è pronta» mi dice verso le undici la mia mamma.
Vado giù di corsa nel forno e chiedo all’Elvira se la ciambella è cotta.
«Vieni verso mezzogiorno» mi risponde con quella vocina di miele, parlando come se avesse una caramella in bocca.
«E’ micòt l’avete messo su?» le chiedo un pò preoccupato.
«Sì sì» mi risponde ridendo, «abbiamo messo su anche il tuo micòt!»
Verso mezzogiorno andiamo a prendere la ciambella cotta, c’è un odore nel forno, ma un odore che ti viene voglia di mangiarla subito, almeno una fetta, almeno e’ micòt! Ma non c’è niente da fare.
«Oggi è troppo calda, non si possono far le fette, si rompe tutta, venerdì non si può mangiare perchè è vigilia e dentro c’è lo strutto. Sabato. Sabato mangi e’ micòt e domenica mattina, che è Pasqua, si mangia la ciambella con l’uovo benedetto!» mi dice la mia mamma con quell’aria da generale. Aspetta pure Rino, fino a sabato niente da fare.
Quando vado nella camera vedo i filoni della ciambella sopra il comò coperti da un telo bianco, lo alzo  un pochino, si sente un profumo!
Proprio lì davanti a me c’è anche e’ micòt che mi guarda, pare che rida… quel patacca!





venerdì 24 agosto 2012




Le zanzarone

Le zolle nel campo bollono, l’erba del mio sentiero scotta sotto i piedi nudi, puoi giocare in pace al fresco solo nella fossa; l’ombra ti avvolge tutto e l’acqua ti arriva ai ginocchi se il mulino macina, se invece è fermo, alla caviglia tra sì e no.
Il sole, filtrando appena tra le foglie fitte, forma delle macchie di luce sopra quell’acqua verde e, in quelle macchie che non stanno mai ferme, si dondolano leggere e pigre le zanzarone. È alle zanzarone che io do la caccia.
Striscio lentamente i piedi per non spaventarle perchè quelle sono capaci di camminare sull’acqua come il Signore e, quando sono abbastanza vicino, gli do una gran botta con la paletta della stufa.
Ma è fatica acchiapparle, schizzano via come dei razzi, e paciaciaf un altro colpo e poi un altro e un altro ancora e a ogni colpo mi arrabbio sempre di più... alla fine mi ritrovo incavolato e tutto bagnato.
«Solo un salame come te perde il tempo così» mi dice il mio babbo la sera quando gli racconto quello che ho fatto.
“Quest’altra volta non gli dico più niente!” penso intanto che vado a letto col muso.
«Madonna com’è permaloso tuo figlio» dice alla mia mamma, «cosa gli avrò mai detto?! è proprio come te!» lei gli risponde male e va a letto col muso.
«Ostia che due patacca!» dice il mio babbo e va a letto arrabbiato anche lui.


mercoledì 20 giugno 2012

Quel giovedì del 58



Quel giovedì del 58
racconto vincitore del premio letterario Sauro Spada 2011

Era stanco Primo, veniva giù con un carico di legna da Viamaggio, lassù sul passo c’era il sole, i boschi di querce, con le foglie tutte gialle, parevano d’oro, il cielo blu tirava nel violetto, si stava bene con quell’aria tiepida che ti avvolgeva come una coperta. Ma, a mano a mano che scendeva, l’aria si faveca più rigida, il sole si nascondeva nel grigio. Giù, giù, in tutte quelle curve col ventisei, bisognava stare attenti, i freni erano quelli, il carico un bel po’ di più e nella valle, in mezzo alla nebbiolina, l’aspettava quasi di sicuro quell’antipatico del maresciallo di Novafeltria; con quello non si ragionava, non c’era caffè o sigarette che tenessero, ti faceva la multa, pareva godesse a farti la multa quell’accidenti, e così se ne andava quel po’ di guadagno del sovracarico.
Primo aveva voglia di essere a casa, di vedere i suoi due bambini e sua moglie... trentasei anni, ancora bella come a diciotto! Piacevano a Primo le belle donne.
«Bisogna vederla alle tre della notte una donna» diceva sempre «spettinata, senza trucco, solo con quel po’ di biancheria addosso, lì vedi se è bella davvero!»
Era stanco Primo ma contento, a Novafeltria non aveva incontrato nessuno, stava ormai per arrivare ed era venerdì: tutto il sabato e la domenica per riposarsi. L’unica cosa che non andava era quella maledetta nebbia, a mano a mano che proseguiva s’infittiva, si ammucchiava, sfocava tutto e si faceva fatica a vedere il fosso. Vicino alla fabbrica, prima che cominciassero le case, gli è parso di vedere una figurina bianca, quasi trasparente, che, con un fazzoletto, gli faceva segno di fermarsi. Ha rallentato e le si è fermato a fianco.
«Va a Santarcangelo?» gli ha chiesto ed ha alzato due occhi celesti macchiati di blu che facevano voglia soltanto a guardarli.
«Sì, salga pure» le ha detto Primo che di donne belle se ne intendeva.
Poteva avere sì e bo trent’anni, bella ma non sfacciata, piena di grazia, elegante nel suo vestitino a fiori, con un cappottino blu che tendeva al grigio e quel fazzzoletto stretto tra le mani.
Piaceva a Primo! Aveva un non so chè di leggero che ti faceva star bene solo a guardarla, le voleva parlare, dire qualcosa di intelligente per fare colpo ma non gli veniva niente di buono e, con una così non potevi certo dire delle stupidaggini! Intanto che pensava a cosa, erano arrivati a Santarcangelo, si è fermato vicino alla farmacia di Sgarbi.
«Grazie» gli ha detto nello scendere guardandolo con quegli occhi celesti macchiati di blu.
Le voleva dire “spero di rivederla” ma, ha guardato di qua e di là, non c’era già più, era come sparita d’incanto.
Vicino alla stazione, ha scaricato la legna e poi s’è  avviato verso casa, alla fine d’Ottobre le giornate sono già corte e si fa notte presto. Era contento Primo d’aver finito e di andare a casa dai suoi figli e da sua moglie, in fondo in fondo però, ma proprio in fondo, avvertiva una puntina di dispiacere per non essere riuscito a dir niente. Che figura aveva fatto con quella ragazza!
Stava per scendere dal camion quando ha visto il fazzoletto sul seggiolino. Se lo è rigirato tra le mani, si sentiva ancora il profumo di lei, pulito, fresco, come di violette. L’ha piegato e l’ha messo nel tascone della portiera.
Ha chiesto in giro il giorno dopo, ma nessuno la conosceva, a dir la verità era anche fatica spiegarsi, il nome non lo conosceva; come fai a dire, che era bella, con gli occhi celesti macchiati di blu e un profumo pulito che sapeva di violette? Si mettevano a ridere, ti strizzavano l’occhio, complici di una cosa che non c’era stata.
«Babbo ha detto la mamma che ti devi preparare, fra dieci minuti andiamo al cimitero» gli ha detto la piccola che si era già messa tutta in ghingheri.
Era il giorno dei morti e sono andati via tutti e quattro a fare il giro dei cimiteri. A Ciola, a Poggio e poi Santarcangelo. Un sacco di gente che conosci, due chiacchiere, i fiori al tuo povero babbo, un giro nel camposanto per vedere quelli nuovi...
«Babbo, vieni babbo?»
Ma Primo non rispondeva, era lì, davanti a un mucchio di terra fresca, a guardare quella foto appesa ad una croce di legno. Guardava quegli occhi celesti macchiati di blu, sembrava che ridessero, quel vestitino a fiori, il cappottino blu che tendeva al grigio e quel fazzoletto stretto tra le mani.L’avevano sepolta il giovedì, il giorno prima che salisse sul suo camion...
È rimasto lì per un bel pezzo Primo, con la testa che gli scoppiava, poi ha dato retta a quella bambina che lo chiamava e sono ritornati a casa.
«Ma cos’hai, sei pallido, non parli da due ore, stai poco bene?» gli ha chiesto sua moglie.
Non ha risposto ed è andato a letto.
«Ma guarda che maleducati, lasciano perfino i fazzoletti sulle tombe.» diceva il becchino il giorno dopo intanto che sistemava la tomba di quella ragazza morta alla fabbrica un giovedì di Ottobre del cinquantotto.

domenica 17 giugno 2012

Il mulino Sapignoli


Nel video la voce dell'autore che racconta nel dialetto romagnolo di Poggio Berni.


Il mulino Sapignoli

Tra Verucchio e Torriana si incunea si stringe  si tocca quasi la Valle del  Marecchia. Da qui nasce la fossa che portava una volta vita e lavoro a tutti i mulini che correvano di fianco a lei fino al mare. Nel mese di Maggio a Poggio Berni, la campagna era vestita di grano, le schiene curve delle colline ballavano leggere con la brezza che saliva da marina e un’onda d’oro scendeva morbida quasi a toccare il blu del mare. Quando le spighe, piegate e cariche di promesse, rilucevano di oro antico, il grano era pronto per la mietitura. I covoni, caricati sul carro, erano portati sull’aia dove veniva eretta la bica. Dalla trebbiatrice uscivano paglia, pula e grano. Con la paglia facevano i pagliai, i sacchi di grano venivano trasportati al mulino. Era lì che le grandi macine di pietra, mosse dalla forza potente dell’acqua, schiacciavano lentamente i chicchi, trasformandoli in soffice e bianca farina.
Pitrìn sempre allegro, Primo sempre burbero, erano i due fratelli che mandavano avanti il mulino Sapignoli, e prima il loro babbo, dopo il fratello Michele. Io gli capitavo spesso tra i piedi “Rino spostati da quella macina che ti fai male!” brontolava Primo.
“Vai via da quel sacco che ti sporchi tutto” mi diceva ridendo Pitrìn “dopo la tua mamma ce le dà a tutti e due!”
Me li ricordo bianchi, tutti bianchi, dalle scarpe alla punta dei capelli, tra le macine che giravano, i sacchi di farina che si riempivano piano piano, il rumore dell’acqua che scendeva con violenza dalla chiusa, l’odore del grano e quella nebbiolina fina fina che copriva tutto di bianco.


sabato 16 giugno 2012

La Sala Diana

Nel video la voce dell'autore che racconta nel dialetto romagnolo di Poggio Berni.


La Sala Diana

Nel prato, di fianco a casa mia, avevano costruito la "Sala Diana" e tutti i sabati sera e la domenica c'era il cinema. Veniva un sacco di gente da tutte le parti.
- Mettiamo su un posteggio per le biciclette? - dice mia mamma.
Eravamo vicini, avevamo una bella aia che ne poteva contenerne un sacco... abbiamo provato.
Il sabato sera io mi mettevo sulla strada e quando vedevo avvicinarsi un lume di bicicletta, aspettavo che mi fosse vicino poi gridavo:
- Volete posteggiare la bicicletta? Costa dieci lire! - Qualcuno si fermava e, a fine serata, contavamo due, trecento lire.
- Se ne fermano pochi mamma!
- Ci vorrebbe un'insegna fuori con la luce, così vedono e si fermano da soli.
- Si può fare con una scatola da scarpe.
Mia mamma ha tagliato la scritta "POSTEGGIO" nel coperchio e dentro, ha incollato un foglio di carta velina gialla; il mio babbo ha messo una lampadina nella scatola, ha fermato il coperchio con un po' di nastro isolante e l'ha attaccata al tronco del susino che stava proprio sul cancello.
Che spettacolo la sera!
Si vedeva l'insegna a cinquanta metri di distanza, io non avevo più bisogno di urlare, la gente scendeva e lasciava le biciclette da sola.
La sera che hanno dato "Maria Goretti" ne abbiamo rimediate centocinquanta, millecinquecento lire!
Tutti e tre eravamo sicuri che presto saremmo diventati ricchi.


Il prete di Trebbio

Nel video la voce dell'autore che racconta nel dialetto romagnolo di Poggio Berni.


Il prete di Trebbio
Quando i primi raggi accarezzano il campanile, l’angelino nella punta diventava rosa dalla contentezza e quel biondino sulla quarantina, uscendo dal portone della chiesa, si ferma nel sole a chiudere gli ultimi bottoni della veste nera lunga fino ai piedi.
Scende di corsa gli scalini ripidi del sagrato e, svelto come la polvere, entrava nella stalla, attacca al calesse la cavallina che, contenta come una pasqua di fare due passi, parte tutta allegra per andare a Santarcangelo al mercato.
«Vado nel casiiino!» urla, il venerdì mattina, il prete di Trebbio, alla perpetua affacciata alla finestra del secondo piano a guardare la nuvola di polvere, giù per la stradina bianca, allontanarsi sempre più.
Li vedo passare da casa mia, scivolano leggeri, sopra il colle del Poggio, nel blu slavato del cielo, la coda bianca di lei, le veste nera di lui. Poi, dalla “Mènga”, finito di scendere, la corsa si spegne e la cavallina, con un trotto più tranquillo, arriva a Santarcangelo.  Al mercato il prete fa due spese, una la mette davanti, sotto il seggiolino, l’altra la lascia dietro. Nel ritornare a casa passa dallo Stradone e, prima di attraversare l’Uso si ferma al “Baratàun” da la Jole, la moglie di Campana.
 È brutto Campana: un pennacchio di capelli neri tutti disordinati sopra una testa che pare fatta con l’accetta, due braccia lunghe fino ai ginocchi e due gambine secche che ballano dentro i pantaloni.
È “brutto e scemo” dicono allo Stradone ma, se lo guardi bene negli occhi, ti accorgi che scemo non è, brutto e furbo ma scemo no, lo da ad intendere perchè fa un mestiere, diciamo un po’ speciale, fa il ladro, è il ladro più bravo dello Stradone.
La Jole invece è bella, ma proprio bella, due occhi da gatta che incantano, la bocca da baciare e quella coda di capelli neri che non sta mai ferma... ”Come ha fatto a sposare uno sgorbio così lo sa solo lei” pensa il prete intanto che fa quei due scalini, perchè si incontrano proprio su per le scale quei due, il prete va su, il marito viene giù, si ferma al calesse, prende la seconda spesa e se la porta nella capanna.
«Ma cosa viene a fare il prete tutti i venerdì a casa tua?» gli domandano quegli uomini.
«Viene a confessare la Jole.»
«Ma intanto che la confessa tu vai via?»
«Ma non pretenderete che stia lì ad ascoltare i suoi peccati! » gli risponde Campana con faccia di bronzo.