Per
non dimenticare da dove veniamo
I
bengàla (Setèmbri dé ’44)
di Rino Salvi
Nel settembre del 44, lungo tutta la valle del fiume Marecchia
fino a Rimini, è passato il fronte. Dopo aspri, sanguinosi, accaniti combattimenti le truppe alleate costringevano
i soldati tedeschi a ritirarsi al di là di Savignano sul Rubicone.
E' un giovedì pieno di pioggia
oggi, il grigio ha portato via i colori alla collina di Poggio Berni; Torriana,
Verucchio e San Marino sono nascosti dietro le nuvole basse e piene di pioggia;
laggiù verso il mare, proprio nell’angolo, è tutto nero e non promette nulla di
buono. È scesa qualche goccia anche prima, ma non ha fatto niente, ha lasciato
solamente della gran umidità che ti entra nelle ossa e nel cervello. Non si
decide a fare una bella acqua e a liberare il cielo, sembra che aspetti
qualcosa.
Verso sera si sente il
ricognitore ronzare, va, viene, si vede poi si nasconde, pare un moscone al
vetro della finestra. Ecco adesso non c’è più, è andato via. C’è un silenzio! gli
uccelli trattengono il respiro.
« Questa notte
vengono» dice il mio babbo.
Mangiamo in fretta
poi, verso sera, usciamo per andare a
dormire nel nostro rifugio. Un buco scavato nella scarpata sotto la stradina
che porta alla stazione. In tre tutti ammucchiati sopra una coperta e due
cuscini. Il mio babbo chiude la bocca del rifugio con due sacchi pieni di
sabbia e diventa subito notte.
Parlano poco i
miei stasera, quasi niente e poi parlano sottovoce e, in quel sussurro, mi
addormento.
Mi sveglia di
colpo il rombo rauco dei bombardieri e la luce bianca dei bengala che brilla e
scruta dappertutto, me la sento addosso che mi fissa, poi lentamente si spegne.
Sento allora il fischio delle bombe e lo
scoppio secco che mi fa chiudere gli occhi e mi viene la pelle d’oca, mi viene
voglia di piangere e mi butto tra le braccia di mia madre che mi stringe
silenziosa. Poi il rumore degli aerei rotola via lontano assieme alla morte e
alla paura, il fiato caldo delle bombe smette di latrare, ritorna il buio
avvolto in un silenzio che fa rinascere.
«Stasera han
finito di lavorare, dai Rino che andiamo a dormire nel nostro letto!» mi dice
mio babbo.
Mi giro di fianco,
poi mi metto a pancia sotto, mi giro ancora verso il muro, ma non dormo, gli
occhi si riempiono della luce dei bengala, le orecchie rintronano del rombo
degli aerei, ho la bocca secca, ho bisogno di bere, mi alzo, vado in cucina,
tiro su dal secchio mezzo mestolo di acqua e me la bevo piano, mi calmo,
ritorno a letto.
«Dormi povero
maccherone che è già passato tutto» mi dice piano la mia mamma con la mano
leggera sopra i capelli e, cullato dal russare del mio babbo, quasi senza
accorgermene, passo di là.
Ha girato anche
questo venerdì il ricognitore, insistente, come se avesse un pensiero fisso, su
e giù sul colle del Poggio e poi a Trebbio, a Torriana, a San Giovanni e ancora
sopra il Poggio a cercare i nidi delle mitragliatrici nascosti dentro la bosca
dei Sapigna, a cercare i cannoni che sparano dai sabbioni di Trebbio e dal
cimitero di San Giovanni, si abbassa quasi rasente a terra poi si alza
all’improvviso per evitare le pallottole rabbiose dei soldati tedeschi.
«Ci tocca andare
nel rifugio anche stasera, in quello grande però, con tutti gli altri, è
meglio» dice il mio babbo.
Arriviamo che è gia buio. Il rifugio grande è una
galleria di mattoni stretta e lunga che attraversa la massicciata della
ferrovia da un capo all’altro. A terra una pozzanghera con due dita d’acqua
torbida, ristagna sulla terra battuta. È umido e si scivola. Alcune assi inchiodate
chiudono le due bocche.
Piena zeppa di
gente. I più stanno zitti, chiusi nei propri pensieri, qualcuno chiacchiera
freneticamente come per nascondere la paura, le donne stanno attaccate ai
propri figli, non ho mai visto i miei compagni così buoni e zitti, mi sembra
siano diventati tutti piccolini. Le nove, le dieci, mezzanotte, le ultime
parole si spengono, qualcuno tenta di dormire, gli altri stanno zitti e
aspettano.
Verso l’una
scoppia il finimondo, è come essere dentro ad un temporale, il cielo è acceso
da lampi di luce bianca e violenta che balena all’improvviso e rapida si
spegne, la terra trema sotto i piedi, gli scoppi rintronano vicini facendoti
saltare dalla paura. In mezzo a quella tempesta di bombe, di fischi laceranti,
di boati che non finisce mai, sento le urla dei bambini, vedo gente
bestemmiare, pregare, piangere. Dopo i bombardieri cominciano i cannoni degli
inglesi che sparano, dal di là dal fiume Marecchia, contro la collina del Poggio
da dove rispondono i tedeschi, noi, in mezzo a quell’inferno, non possiamo far
altro che aspettare e sperare che finisca, ma non smette tanto presto, solo
verso le quattro il mostro stanco di boati, di urla, di fuoco, di morte,
lentamente si addormenta e noi con lui chiudiamo gli occhi per non vedere, per
non sentire più nulla.
Poi, nella calma
del mattino dopo, nel ritornare a casa, vediamo quel cratere sulla stradina,
proprio dove c’era il nostro piccolo rifugio.
«Os-cia»’d chéul!»
(che fortuna!) borbotta il mio babbo tra i denti e si mette a
fischiettare.